L’Argante 170 – Di semine ed altri raccolti

Campi di Massa, Vincent Van Gogh

Vedi Zib, cultura viene da coltivare. Guarda questo lembo di terra, ci sono fagiolini, cipolle, carote, lattuga, cicoria, pomodori. Per crescere e arrivare a maturazione hanno richiesto fatica e lavoro, strumenti come la vanga, il rastrello, la falce. Mani forti, pensiero e conoscenza delle fasi della luna, delle stagioni. Acqua, sole, gelo. Il cavolo nero per la ribollita è buono solo se “di gelata”. I solchi sono stati vangati, fertilizzati, innaffiati per lunghi mesi. La coltura della terra è frutto di lunga pazienza, ottimismo, anche di dolore, quando ci sono avversità come la grandine, la neve, il vento, la siccità o le alluvioni. “l’orto vuole l’omo morto”, si dice qui in Toscana. Lo stesso vale per la cultura. Vedi, non si tratta di sola improvvisazione, genio, ispirazione, momento fugace, intuizione… non farti ingannare da un gruppo di sceneggiatori come noi che cazzeggiano. Dietro c’è un lavoro duro, articolato, lento, un’educazione al pensiero che si trasmette di generazione in generazione, esperienza, studio, viaggi, libri, tanti libri. La cultura e l’arte esigono sacrifici, non meno della coltivazione della terra. Ma forse siamo noi vecchi – contadini o cinematografari (poco cambia) – che la pensiamo ancora così… Mah. Il mondo sta cambiando in fretta.

                                                                                                                                                  -Dal libro: Mio Amato Belzebù,

                                                                                                                                     l’amara dolce vita con Monicelli e Compagnia

                                                                                                                                                Di Chiara Rapaccini.

Il mondo è cambiato in fretta?

L’interrogativo ce lo offre Mario Monicelli, detentore delle parole soprascritte, dette un tempo alla compagna – artista Chiara Rapaccini.

In termini di cinema, quella di Monicelli è stata una generazione costruente. In quegli anni si è dato l’avvio ad un’osservazione del reale attraverso scene figlie e non scene madri. La vita veniva rubata dal di dentro, dai dettagli, dalla difficile interpretazione e restituzione della semplicità, senza perdersi in artificiose scritture con l’ambizione di stupire ma, solo del raccontare. E inaspettatamente: tutto riusciva! Ogni cosa veniva fatto senza prepotenza, ma con un filo di eguaglianza di chi si percepisce comune a tutti. “Monicelli e compagnia”, per usare le parole dell’autrice, verso la fine, hanno puntato il binocolo per interpretare i movimenti di una società in evoluzione, in un presente che ai loro occhi sembrava stesse per smarrire ogni ideale.

“Un’educazione al pensiero”, trasmesso di generazione in generazione… Fino a noi.

Ma come si educa questo pensiero? Altra domanda.

Nel testo si parla di sacrificio, di attesa… di un andar al passo delle coltivazioni, metafora di una semina di obiettivi in attesa del loro sbocciare. Certo, che agli occhi dei cinematografari di un tempo, oggi si ritrova una fretta del fare. Un contrasto del tempo che non trova un riparo nel riposo e neanche in un sacrificio compensatorio nella maggior parte dei casi. Ma solo, una penalizzante gestione di questa attesa. E così si assiste a questo ritmo incalzante a discapito di una specificità dell’osservazione, dell’interrogazione, dell’attenzione a quei dettagli che rendono veri i racconti. Il metodo è divenuto più individuale e competitivo. In questo senso, più lontano al basso delle cose, alla terra. La naturalizzazione contro una snaturalizzazione. Una ricerca di quell’industria di cui oggi tanto si parla che alimenta un distacco di quelle virtù artistiche, pure, a volte ingenue, che rendono un’opera e (non un prodotto) ancora universale e vero. Ma questo, per fortuna, non vale ancora per tutti.

La sfida consiste nel non cedere a quel rischio produttivo che incide sull’utente finale, ovvero sullo spettatore. Ad oggi, anche l’agricoltura in realtà, affronta lo stesso empasse, questo ci fa pensare come in realtà ci muoviamo nella stessa direzione dell’ambiente che abitiamo. Sempre in metafora agricola, guardando alle sementi di OGM (e non in questo caso riferito alla nostra compagnia) oggi commercializzate, queste non sono in grado di alleviare i problemi di insicurezza alimentare nelle aree meno sviluppate ed economicamente fragili. I punti critici restano quindi, i costi delle sementi OGM brevettate dalle industrie, la dipendenza degli agricoltori da esse e la necessità di acquisto in quantità sempre maggiori di quel particolare erbicida a cui la pianta è geneticamente programmata a resistere. Da qui, si crea il bisogno di un bene per venderlo e quindi un’aspettativa geneticamente modificata e perfettamente collocata in un sistema sempre più a circuito chiuso. Così, anche nel cinema, il bisogno di un genere cinematografico che guarda al produrre e incassare fa sì che lo stile, le scelte autoriali e la creatività vengano condizionate in funzione ad un’aspettativa di pubblico orientata nel tempo. Si creano così, degli standard di storie che diventano cliché facilmente riproducibili e finanziabili, nel ricordo di un passato in cui prima, con più artigianalità, si osservava e si ascoltava il tempo che scorreva come un fiume non ancora intossicato.

Campi di grano, Vincent Van Gogh

Ma come detto nel testo, occorre possedere ottimismo pur e soprattutto nelle avversità!

Il mondo cambia perché il tempo scorre nell’inesorabile legge della natura. La percezione di un movimento è sempre presente. Ma l’errore più grande che si può commettere è quello di rifugiarsi in una malinconia dei tempi andati, in un’arresa di questo presente come giustificazione ad un non-cambiamento.

Gli stili si evolvono, a volte ritornano, quello che non si deve perdere è il dialogo coerente con un pubblico libero che aspetta la sua identificazione attraverso una storia. Fare cinema può essere l’atto più vicino ad un mestiere agrario se maneggiato con umiltà e cura, quanto quello più distante ed elevato ad una classe privilegiata se lanciato al successo e ad una prospettiva di mercato. In questo confine, l’equilibrio è precario. La narrazione è un processo secolare, è una comunicazione eterna che esiste dall’istante in cui un essere vivente si è rapportato ad un altro essere vivente. La necessità amica di fondere questo con un bisogno artistico, in un intento estetico, diviene strumento di condivisione e appartenenza. Di conseguenza, saper raccontare è una missione che richiede preparazione.

 

La coltivazione della leggerezza come concime per parole pesanti. Irrigazione dei temi sociali per fioriere di consapevolezza. Potatura di drammi per sfoltire sofferenze e innalzare commedie della verità. Tutto questo, parte di un processo in mutamento. A volte malconcio, a volte ignorato, altre potenziato. Ma parte ancora, di un processo.

Mani nella terra, come contatto diretto di un lavoro che ci appartiene. Un ritorno o un rilancio, del tutto nuovo, ad una connessione lenta, ma non per questo inefficace.

In questo mestiere bisogna non perdere aderenza con la realtà perché linfa reciproca di un’arte universale. Occorre non interrompere quell’attaccamento al terreno che ci rende ancora semplici e non assolutizzati, incentrati in un’unica azione o identificazione con quello che facciamo. Perché in materia di vita bisogna trattare il tema con cura e a 360°, ma per farlo, occorre ancora una volta, una difficilissima semplicità.

E sulla scia di quelle piccole-grandi trasmissioni passate, sopravvissute alle tempeste generazionali, approfittiamone quindi, per irrigare i nostri campi creativi e divertirci a sporcare le parole attuali.

Un paio di scarpe, Vincent Van Gogh

 

 Gaia Courrier.

Laureata in Progettazione di Eventi Per l'Arte e lo Spettacolo, dopo un master in sceneggiatura attualmente lavora nel campo editoriale.
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