Le Interviste Mortificate #04 || Claudia Marino e il teatro come ‘cura dell’anima’

Claudia Marino. Foto di Marco Borrelli

Claudia Marino è una giovane attrice fuori dal comune. Sì, perché si è laureata in Lettere Moderne alla Cattolica di Milano, si è diplomata alla Scuola per Attori “Orazio Costa” del Teatro della Toscana, è stata in tournée con una produzione del Teatro Franco Parenti ed ha persino già ‘diretto’ un teatro. Claudia fa infatti parte del gruppo di attori nato dai meandri del Teatro della Pergola, iNuovi, che il teatro fiorentino ha formato e al quale ha affidato, negli scorsi anni, la gestione del Teatro Niccolini, in modo che, a turno, i ragazzi potessero occuparsi di tutti i delicati meccanismi che è necessario si incastrino alla perfezione affinché si possa fare del buon teatro. Nonostante tutte queste esperienze, come dice lei, Claudia ha ancora ‘fame’ e si vede. È schietta e solare, elegante ma alla mano, e, soprattutto, ha le idee molto chiare su cosa le sue esperienze passate le abbiano lasciato in dono e sul ruolo fondamentale che può ancora ricoprire il teatro.

Iniziamo dalle tue esperienze precedenti al percorso di formazione che hai effettuato presso la Scuola per Attori “Orazio Costa” del Teatro della Toscana. A Milano, hai infatti calcato il palcoscenico del Teatro Franco Parenti già sette anni fa…

Frequentavo il CTA, Centro Teatro Attivo, che porta avanti una forte collaborazione con il Teatro Franco Parenti. Lì abbiamo fatto due spettacoli: uno era il saggio di fine corso, mentre nel settembre 2014 abbiamo messo in scena Terrore e Miseria del Terzo Reich di Brecht, nell’ambito di una rassegna dedicata appunto a Brecht. Quella è stata la mia prima volta su quel palco, nella sala grande del Parenti, ed è curioso perché era proprio lì che mi trovavo anche il 23 febbraio dell’anno scorso, il giorno della chiusura dei teatri in Lombardia a causa della pandemia. Ero lì con I Promessi Sposi alla Prova e quella era l’ultima replica al Parenti. Poi avremmo dovuto spostarci a Genova, Bologna e via dicendo ma…ecco, non è andata così…anzi, al Franco Parenti deve esserci ancora una mia spazzola!

Qual è l’insegnamento più importante che hai imparato al CTA e in che modo quell’esperienza ti ha spinto a voler tentare la strada della scuola del Teatro della Toscana?

Devo dire che quella scuola l’ho frequentata sia facendo i corsi amatoriali, sia frequentando un anno del corso professionale. Tutti gli insegnanti, prima su tutti Lara Franceschetti, mi hanno trasmesso una grandissima voglia di fare questo mestiere, una grandissima voglia di indagare l’umano. In realtà, prima di entrare al corso professionale al CTA, avevo già fatto i provini per le accademie ed ero stata ammessa alla seconda selezione alla Paolo Grassi. Quella però non è andata. Io sono fatta male, per cui ho fatto poco dopo la selezione al Piccolo e so che non è andata bene neanche quella perché ero giù di morale: ero partita con l’idea che tanto non sarei passata. Quindi mi sono iscritta al CTA e quell’anno mi è servito proprio per recuperare le energie e per poter nuovamente dire di voler fare questo mestiere.

Claudia Marino. Foto di Erica Trinchera

E così ti sei trasferita a Firenze dopo essere stata ammessa alla Scuola per Attori “Orazio Costa”. Qual è l’impronta che questo percorso di formazione lascia sugli attori che forma?

E’ complicato, perché ci sono un aspetto umano e un aspetto professionale. L’aspetto umano sicuramente è legato al fatto che io abbia trovato delle persone che hanno creduto in me fin dall’inizio e che continuano a credere in me. Gli insegnanti mi hanno detto che quando mi hanno vista entrare ai provini hanno pensato “Ok, questa la prendiamo.” E il fatto che abbiano pensato di dirmelo solo una volta terminato il mio percorso, bene o male, è un segno di grande fiducia.

La Scuola per Attori “Orazio Costa” forma persone, prima che attori. Noi siamo stati formati e siamo cresciuti come gruppo. Sicuramente ognuno di noi ha la propria personalità, le proprie caratteristiche, però – per quanto durante la formazione ci abbiano provato in tutti i modi a dirci di smetterla di essere così ‘gruppo’ – di fatto gli spettacoli che abbiamo fatto sono stati, appunto, lavori di gruppo. È così che impari a capire quali sono i pregi ed i difetti di ognuno, per cui nel lavoro collettivo vai a coprire un difetto esaltando un pregio.

Il Metodo Mimico ti porta proprio ad entrare in contatto. Io lo trovo un metodo di approccio all’umano, più che un metodo di approccio alla recitazione, perché ti permette di metterti nei panni dell’altro – o delle altre cose, a volte, come quando devi diventare un albero. A proposito di questo, uno degli aspetti su cui sto riflettendo di più ultimamente è quella del coro mimico. Con Marcello Prayer abbiamo interpretato il XXVI Canto dell’Inferno, quello di Ulisse, come un coro mimico. E, in questo momento in particolare, credo che esso sia davvero quanto di più necessario ci possa essere, perché corrisponde ad un’unione di menti e di corpi, che si fondono per diventare un’unica cosa, un singolo apparato che invia un solo messaggio.

Per quanto riguarda la formazione, abbiamo avuto l’opportunità unica di costituire il gruppo de I Nuovi e di gestire per due anni un teatro, avendo l’opportunità di avanzare proposte ad un teatro nazionale, una chance incredibile e rarissima per dei neodiplomati. Io mi sono trovata a fare il Direttore del gruppo più e più volte, con gli oneri e gli onori che ne derivano.

Claudia Marino ne “Le Ragazze di San Frediano”, Teatro della Toscana. Foto di Filippo Manzini

E’ un’esperienza davvero unica nel suo genere quella de iNuovi. Anche solo il fatto di esservi dovuti impegnare, a rotazione, in ruoli diversi da quello dell’attore, per poter gestire il Teatro Niccolini, vi ha forse dato una prospettiva molto più ampia e, allo stesso tempo, approfondita sul mondo del teatro. Pensi che, grazie a questa esperienza, riuscirete a cogliere più opportunità in futuro?

È proprio in questo periodo che ci rendiamo conto dei vantaggi che ha avuto la nostra formazione. In un momento in cui è fortemente necessario reinventarsi – il che non significa cambiare mestiere, ma trovare un modo diverso per farlo, oppure trovare dei nuovi spunti per farlo come prima – credo che avere avuto l’opportunità di sbirciare in quelli che sono i reparti di produzione e comunicazione, e capire tutto il lavoro e la preparazione che si celano dietro alla messa in scena, ci dia una marcia in più.

Questo per diversi motivi. Intanto non diamo per scontato che lo spettacolo ‘si crei da solo’. Abbiamo ben presente tutta la fatica necessaria e sappiamo anche che quella fatica va retribuita. Sono fermamente convinta del fatto che la figura dell’attore scritturato, purtroppo o per fortuna, andrà a scomparire. E questo significa che dovremo diventare sempre più gestori, se non imprenditori, di noi stessi. Non so se il futuro del teatro saranno i gruppi che nascono dal basso. Probabilmente il lavoro di gruppo, per quanto più costoso, avrà successo, ma sarà importante comprendere come coinvolgere i vari tipi di pubblico.

Questo ci ha portato ad impegnarci anche in altri ambiti: nella drammaturgia, nella comunicazione, nella produzione e organizzazione. Non con l’intento di cambiare mestiere, ma con l’intento di avere un valore aggiunto per il nostro lavoro. Abbiamo avuto, infine, la grande possibilità di interagire con Glauco Mauri, Andrée Ruth Shammah, Matteo Tarasco, Gianfelice Imparato, che è una di quelle persone che raramente si incontrano nel mondo del teatro. E’ una persona umana, profondamente competente, con tanta voglia di dare e di insegnare.

“I Promessi Sposi alla Prova”, Teatro Franco Parenti. Foto di Noemi Ardesi

Per quanto riguarda la tournée de I Promessi Sposi Alla Prova, era la tua prima esperienza di questo tipo? Come è stato portare a giro per d’Italia uno spettacolo di Andrée Ruth Shammah?

Era la mia prima tournée e, tra l’altro, ci sono arrivata in modo un po’ travagliato, perché quello era il secondo anno dello spettacolo e io ho fatto una sostituzione. Ho provato per cinque giorni, a novembre, con Laura Pasetti, l’attrice che interpretava Perpetua e che io sarei andata a sostituire. Sono stati cinque giorni tostissimi, perché lei ha provato a passarmi tutto quello che aveva fatto fino ad allora, ma purtroppo avevamo pochissimo tempo. Dopodiché ho scoperto che avrei avuto solo nove giorni di prove per entrare in quella “macchina” già ben rodata per un anno che era lo spettacolo, che prevedeva una durata di tre ore e passa e la mia presenza in scena il 90% del tempo.

E poi, puoi aver studiato quanto vuoi – da sola, col copione, guardando il video – ma si prova comunque una forte emozione nel trovarsi sul palco accanto a Luca Lazzareschi, a Laura Marinoni e a Carlina Torta, tra l’altro in un ruolo comico, che non avevo mai affrontato prima. Devo dire che i miei compagni di avventura hanno avuto una pazienza infinita e hanno cercato di facilitarmi il più possibile. Ammetto di aver avuto, per le prime repliche, dei post-it nascosti nella borsina che avevo in scena, con la lunga lista di azioni da compiere.

“I Promessi Sposi alla Prova”, Teatro Franco Parenti. Foto di Noemi Ardesi

A livello più intimo, di interpretazione, che differenze hai trovato tra il calarti in un ruolo già interpretato da un’altra attrice e la creazione da zero di un personaggio, pur entro i limiti imposti dal regista?

C’è una differenza enorme. Ho cercato piano piano di trovare una piccola libertà anche all’interno della griglia del ruolo di Perpetua, che fosse allungare o accorciare i tempi di un’azione, ad esempio. È anche vero che ogni ruolo è diverso a seconda della persona che lo interpreta e possono nascere mille sfumature diverse. Devo dire che ovviamente quando vai a preparare un ruolo da zero, quindi senza avere un video da studiare, puoi metterci di più di tuo e trarne, forse, più soddisfazione. Anche se ammetto che dà molta soddisfazione anche riuscire a strappare una risata in una parte che non sentivi tua. E poi parliamo sempre di grandi palchi, quindi non posso essere che contenta.

Claudia Marino ne “Le Ragazze di San Frediano”, Teatro della Toscana. Foto di Filippo Manzini

C’è qualcosa, in questo anno estremamente difficoltoso e complicato, soprattutto per il teatro, che ti ha particolarmente segnata? Qualcosa che hai dovuto superare o che pensi che porterai dietro?

È stato un anno difficile, molto difficile. Dicevamo, appunto, dell’ultima sera di spettacolo dal vivo del 23 febbraio 2020. È un momento che mi ha molto segnato, perché proprio fino ad un secondo prima sentivo per la prima volta “di essere partita”. Pensavo: “Forse da qui le cose possono migliorare.” Avevo la prospettiva di fare di nuovo Le Ragazze di San Frediano (Teatro della Toscana) e stavo già meditando su come poter far crescere il mio ruolo, quello di Mafalda. Avevo anche la prospettiva di una serie di riprese di spettacoli ad ottobre. Insomma, avevo la sensazione di avere un piano.

Quando c’è stata la chiusura dei teatri ho pensato che sarebbe durata poco. Pensavo che sarei tornata a Firenze, avrei fatto il laboratorio con Giancarlo Sepe e poi avrei ripreso la tournée. Dopo due mesi in giro per l’Italia ero molto più attiva, molto più reattiva ed ero pronta a continuare così. E invece è arrivata la chiusura definitiva. Ammetto che, nonostante il podcast e altre attività, ho avuto dei mesi di rifiuto. Era come se fare teatro e pensare al teatro mi facesse male.

Però poi sono arrivate le Consultazioni Poetiche al Telefono e quelle mi hanno lasciato e mi lasceranno tantissimo. Sono state la cosa bella di questo anno assurdo, un modo diverso, ma sensato, per entrare in contatto con le persone. Mi hanno permesso di fare il lavoro da attrice senza fare il lavoro di attrice. Alla fine, sono entrata in contatto con più di cento umanità differenti, un’esperienza pazzesca che mi ha arricchita molto. Infatti, le Consultazioni prevedono un lavoro di ascolto con le persone in base al loro bisogni.

È incredibile come chi si trova dall’altro lato del filo abbia voglia di parlare e abbia proprio bisogno di qualcuno che lo ascolti. Ė meraviglioso sentire come alcune persone ti dicano di non avere un buon rapporto con la poesia, ma anzi di odiare i versi e le figure retoriche perché le hanno dovute studiare a scuola. Allo stesso tempo, però, se interroghi quelle stesse persone sui momenti poetici, sulla poesia di tutti giorni, ti rendi conto che in realtà hanno a che fare con la poesia più di quanto non pensino, descrivendoti quel tramonto che li ha emozionati o quel riso di bambino che li ha colpiti al cuore. Quando alla fine trovi la poesia giusta per loro e gliela ‘somministri’ in base ai loro bisogni, li senti ridere, piangere a dirotto, stare in silenzio. E lì dici: “Ok, ho fatto qualcosa di utile alle persone. Il mio mestiere è stato utile.” E in un momento in cui viene considerato uno dei mestieri inutili, o comunque non necessari, io mi sono resa conto che invece il mestiere dell’Attore è necessario, perché la cura dell’anima, la cura della persona, la cura della nostra interiorità, in questo momento, sono forse le uniche nostre ancore di salvezza.

Silvia Bedessi

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