L’Argante #21 Insegnare teatro ai ragazzi. Una proposta metodologica 

Dal 2011 sono docente di teatro al Teatro della Pergola. O almeno fino al 2020 lo sono stata. Poi, come tutti gli operatori teatrali, mi sono dovuta fermare. Avevo 28 anni quando ho cominciato ad insegnare a ragazzetti scalmanati di poco più di 10 anni meno di me. All’inizio non è stato facile. Non è semplice domare 20/30 anime indomite, tutte diverse: introflesse, estroflesse, timidi o spavaldi (spesso sia l’uno che l’altro fusi in un’unica personalità al limite dell’incarnazione dell’ossimoro stesso). Come si fa ad appassionare al teatro, un’arte notoriamente seria e assetata di concentrazione e  presenza, delle schegge di energia fuori controllo? 

lezione aperta CAE, foto Filippo Manzini

La giusta distanza 

Per mantenere alta la concentrazione e per dare dignità al lavoro il primo strumento a disposizione di un insegnante alle prime armi è trincerarsi dietro la distanza discepolo/maestro: un passe-partout per sedimentare la gerarchia tra te e l’allievo che, temendo la tua estrema serietà e severità, porta rispetto per l’arte che insegni. Un sistema utile i docenti di chimica forse, ma per chi ha bisogno di approcciarsi ad una maieutica teatrale che dovrebbe far sgorgare anima e gioia, decisamente fallace, quantomeno per me. Un insegnante critico e severo non aiuta ad acquistare fiducia in te stesso, anzi affievolisce la passione nella maggior parte dei casi. Ma allora fino a che punto ci si deve compromettere? É sempre stata un tallone di Achille la mia promiscuità in educazione: se educare è già etimologicamente tirar fuori, come si può fare questo senza sporcarsi le mani? La relazione educativa comprende sempre una dimensione affettiva che coinvolge pensiero e sentimenti che non deve essere considerata un ostacolo da eliminare. Il mio fare educativo nel teatro ha trovato assestamento nella matrice stessa del metodo che insegno. Nel metodo mimico di Orazio Costa infatti il regista diventa coordinatore: un mediatore tra le proposte creative degli attori e la verità e la sincerità dell’atto teatrale. Allo stesso modo l’insegnante, in una pedagogia mai casuale ma intenzionale e progettata, deve aiutare l’allievo a condurre l’indagine personale a servizio della creatività del gruppo. E questo lo si può fare solo, a mio avviso, in un clima democratico e accogliente che vira verso la spensieratezza e il divertimento, rilanciando le proposte e organizzandole. Poter “sfogare” liberamente la propria creatività porterà i ragazzi a fidarsi di sé e, automaticamente e autonomamente, a fare un lavoro, di contro, molto serio e concentrato di ricerca teatrale.

lezione aperta CAE, foto Filippo Manzini

Il teatro come mezzo di conoscenza di sé 

Il linguaggio creativo, secondo il pensiero di Costa e del suo maestro Copeau, è sia strumento, sia finalità. La centralità del soggetto si colloca in un progetto educativo in cui la crescita e la valorizzazione della persona implicano un cambiamento basato sull’ imparare a conoscere, a fare, ad essere. Una formazione che coniuga arte e sviluppo della persona in un processo di crescita. Questo nuovo modo di pensare alla formazione teatrale trae le sue origini dall’intervento di Grotowski: il teatro del ‘900, grazie a lui, passa da fine a mezzo, da occasione di intrattenimento in strumento efficace di conoscenza di sé e addirittura di ricerca spirituale; diventa lavoro su di sé, finalizzato a chi lo compie non più a chi lo assiste. Quello che aggancia i ragazzi al teatro, quindi, dovrebbe smettere di essere quel bisogno narcisistico di auto-iper-esposizione di sé  proprio di molti sedicenti attori, ma un bisogno reale e concreto di conoscere e riconoscere se stessi nella relazione con l’altro in un atto creativo che si manifesta sempre diverso, spontaneo ed autentico ad ogni lezione. 

Orazio Costa

Il teatro: potente dispositivo di formazione capace di muovere dimensioni importanti della relazione con il proprio sé e con la propria corporeità. Il gioco come  componente essenziale 

In molte lingue la parola recitare è sinonimo di giocare: basti pensare al To play anglosassone o al jouer francese. In Italia siamo molto più melodrammatici: recitare, interpretare. Il teatro italiano sembra già noioso nell’onomatopea del suono della parola che ne identifica l’azione.  E invece è bene, soprattutto quando si lavora con i ragazzi, porre l’attenzione al gioco come punto di partenza e di ritorno. Ricordiamoci che l’età adolescenziale mette al centro del proprio compito di sviluppo l’elaborazione di un difficile e faticoso rapporto con la dimensione corporea. Nella loro esistenza il corpo si fa sentire e lo fa soprattutto con sensazioni di sofferenza, disagio, impaccio e goffaggine. La richiesta di lavorare sul corpo e con il proprio corpo può risultare spesso poco tollerabile nel vissuto di un adolescente. Il gioco può allora rivelare un’importante sponda metodologica. Bisogna valorizzare quanto più possibile la componente ludica come mezzo e come strategia per consentire l’avvicinamento al teatro come forma di rappresentazione di espressione di sé. La drammatizzazione teatrale può essere un contesto di mediazione e di manipolazione all’interno del quale è possibile ricostruire, ricomporre, ristrutturare l’esperienza della realtà. Come suggerisce John Dewey, grande pedagogista del secolo scorso,

“ciò che rende educativa un’esperienza é la possibilità del soggetto di tornare creativamente su di essa facendo di quella stessa esperienza il terreno fertile per una scoperta conoscitiva ulteriore.”

É dunque la componente finzionale, fare qualcosa di autentico in una situazione artificiale, a rivestire la funzione pedagogica fondamentale nel teatro. 

Serena Politi

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