L’Argante 80 || Il noir hollywoodiano degli anni Quaranta: un ricettacolo di onirismo – I parte.

Stando alle preziose indicazioni di un pilastro fondamentale sull’argomento come Panorama du film noir américain di Raymond Borde e Etienne Chaumeton, il film noir americano degli “Anni Quaranta” si sarebbe sviluppato attorno a una caratteristica imprescindibile (oltre che pregnante):

«un’atmosfera onirica, ambigua, vagamente irreale».

Nell’accuratezza delle loro valutazioni critiche, i due studiosi francesi si concentrano sul periodo che va dal 1941 al 1953, ritenendo che si tratti dell’unico possibile periodo di vita di quello che – stando alle loro ipotesi di studio e di analisi – costituirebbe l’autentico e unico noir hollywoodiano. In realtà, la loro teoria sul noir sarebbe stata in seguito contraddetta da molte altre, prima fra tutte quella che porta la firma di Paul Schrader; il quale, a differenza di Borde e Chaumeton, preferisce suddividere fra diversi periodi di fioritura di molteplici tipologie di film noir (di cui l’archetipo di noir “originario” individuato dai due francesi sarebbe soltanto una delle possibili declinazioni del genere). Schrader infatti considera noir anche tutta un’altra serie di pellicole di impianto decisamente più realistico e dall’atmosfera più concreta e meno eterea. Tuttavia, la seguente trattazione prenderà a modello innanzitutto le teorie perfezionate da Borde e Chaumeton, in base alle quali, come già si diceva, sarebbe impensabile parlare di “realismo noir” o di “noir realista” senza cadere in un paradosso.

Fra le innumerevoli fonti e influenze che normalmente si citano a proposito della nascita e dello sviluppo del noir americano, quella che risulta essere maggiormente legata a questo manto di onirismo è l’espressionismo tedesco, dal quale il cinema hollywoodiano mutuò un’importante quantità di dettami tecnici e stilistici che sarebbero inizialmente confluiti nell’horror movie e nel monster movie degli anni Trenta, consentendo per la prima volta (almeno in quel di Hollywood, s’intende) di:

«lavorare […] sul buio, sul non detto e il non visto» e di dar corpo sullo schermo a «minacce impalpabili»

ma che poi avrebbero finito per costituire una vera e propria linea-guida di tutto il cinema a venire, al di là delle comode distinzioni di genere, arrivando a contaminare (e quindi a trasformare e a reindirizzare) anche il cinema cosiddetto “realistico” e le sue coordinate di scrittura e di messa in scena: non a caso, questo:

«innesto di pratiche tipiche del cinema fantastico e orrorifico su una galleria di personaggi e luoghi realistici»,

ebbe a creare «un’atmosfera ambigua e immateriale, che stempera i contorni delle cose e delle persone», al punto da rendere incerta – per lo spettatore, per il protagonista del film o per entrambi – la loro stessa esistenza. Perciò, proprio a causa dei suoi connotati sognanti e allucinati, quello noir è un cinema «inaffidabile», la cui tensione ha origine innanzitutto dalla «disgregazione dell’ordine» a ogni possibile livello di racconto filmico, cioè dalla «scomparsa […] dei punti di riferimento psicologico» usuali e rodati: di conseguenza, il pubblico che «vi cerca invano la vecchia buona logica di un tempo» ne rimarrà spiazzato e confuso (o, al peggio, smarrito e disorientato).

Inoltre, il noir si distingue nettamente dal precedente horror americano per il «processo di interiorizzazione» che va a interessare il dispiegamento del racconto: nella nuova sensibilità che caratterizza il poliziesco degli anni Quaranta:

«l’indagine del detective privato non consiste più nel risolvere enigmi alla luce della razionalità, ma nel percorrere un labirinto di menzogne, avidità e fantasmi».

Ricolmo di «luci artificiali, specchi e acque scure». Perciò l’azione non può che cedere il posto ai moti dell’anima e la narrazione ridursi a una caotica e fascinosa «evocazione di un mondo interiore» che «non ha nulla di neutrale e di impersonale» e che sgorga direttamente dalla psiche disturbata di un protagonista ossessionato dalla lacerante ricerca delle «proprie certezze perdute», le quali, appunto, coincidono da un lato con quelle dello spettatore, le cui aspettative di un cinema “normale” rimangono frustrate, e, dall’altro, con quelle dei padri di famiglia dell’America di allora, terrificati (e per sempre segnati) dal mostruoso spettacolo di morte offerto dalla guerra che si stava consumando in Europa (e, dal 1942, anche nell’Oceano Pacifico). E in questo aspetto così dolente si fanno vive le fondamenta esistenzialiste dello stesso film noir, che lo qualificano come «una scelta consapevole nell’affrontare e subire l’abisso»; quell’abisso di cui parlavano, con diverse (ma in fondo affiancabili) connotazioni, Martin Heidegger e Jean-Paul Sartre nelle loro così lucide riflessioni sulla «sostanza della notte». Molto spesso si tratta di una lotta impari (persa in partenza) col proprio passato, cioè con un trauma seppellito a fatica nei recessi del proprio io; un trauma personale, sociale, nazionale, che però, mediante il cinema, si esacerba nel momento stesso in cui si tenta di sbarazzarsene.

Tuttavia, in aperto contrasto con l’espressionismo tedesco (nel quale «l’ambiente rappresentato riflette il paesaggio mentale del protagonista»), la «pratica soggettiva» del noir comporta la messa in scena dei meandri psichici di un individuo scisso, che «da una parte tiene conto della realtà e dall’altra la nega», dando in questo modo la «sensazione di vivere in un sogno che forse è stato sognato da qualcun altro»: non a caso, l’abisso descritto da Heidegger non può essere domato, ma solo subito, e proprio in questo risiede la sua natura oscura, inquietante e vertiginosa.

C’è ancora molto da dire… e perciò vi do appuntamento al “capitolo” successivo, nel frattempo spero di avervi messo curiosità.

Simone Trevisiol 

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